
Primavera 2018
Presentazione della curatrice Elisabetta Longari
Palazzo Cittadini Stampa – Abbiategrasso
Utilizzabile come aggettivo, germinale ben rappresenta la spinta ad essere, felicemente sintetizzata in immagine dalla scultura di Emilio Scanavino, che sembra la concretizzazione della forza incontrastabile del germoglio decritto da Sartre in La Nausea; mentre si muove su un piano energetico più spirituale Maria Letizia Galli con il suo dipinto Loto, che è in buona sostanza un mandala pulsante e carico della pienezza dell’essere. In un ambito mitologico si muove volentieri l’immaginario di Valerio Ambiveri, che nel suo video Pomeriggi panici impersona il dio Pan che si aggira nei boschi. Un’immersione progressiva nella natura è quella descritta dai due diversi momenti pittorici di Angelo Molinari: dal giardino addomesticato dall’uomo e cosparso di statue si passa, con un deciso salto di dimensione, a percepire come insetti in un prato. Anche Margherita Abbozzo regala una visione ravvicinata della natura, ma la sua è una natura inventata, decorativa, leggiadra e antica come nelle miniature francesi del Quattrocento.
Alla civiltà contadina, o meglio alla sua sparizione, è dedicato il ciclo di fotografie Via rovina di Luigi Erba, che tempestivamente documentava l’abbandono delle malghe intorno a Lecco. Eidois, l’opera fotografica di Leonardo Genovese sembra invece l’allegoria della terra come mistero inconoscibile, una visione metafisica che mescola tanto la seduzione de L’Origine du monde di Gustave Courbet quanto l’enigma de L’Isola dei morti di Böcklin, rendendo evidente il legame tra Eros e Thanatos. Il “rovescio” della pienezza del già citato Loto è rappresentato dal vortice di fiori, che come foglie secche spazzate dal vento, verranno disperse senza lasciare traccia, come annuncia il teschio che discreto si affaccia ad occupare il centro della composizione di Fausta Squatriti dal titolo Memento Mori ( e come poteva essere diversamente?).
Se il lavoro che Meri Gorni espone dimostra il suo attaccamento alla terra, ai suoi fiori e ai suoi frutti, Luigi Billi guarda il cielo tra le fronde degli alberi, mentre Cesare Fullone immette lo spettatore in un roseto ardente, in una rete, che cresce in modo esponenziale, composta dai giunchi unghiolati di una natura in bilico tra il meraviglioso e il terrifico. Invece a vocazione domestica, amichevole e ludica sono, nelle intenzioni dell’autore, i “tappeti natura” di Piero Gilardi, in poliestere e che venivano venduti a metro ed erano destinati all’uso, come anche Pratone, progettato da Giorgio Ceretti Pietro Derossi e Riccardo Rosso, nasce nel 1971 come seduta ed ora è diventato una sorta di monumento del design italiano. Albano Morandi classifica e compone un erbario pittorico, mentre Nataly Maier, seguendo un discorso analitico, scompone e separa forma e colore in un trittico. Elena Monzo cuce una stessa parola riparatrice (Kintsugy) sui petali di diversi fiori, che ovviamente ne risentono, scurendosi e accartocciandosi, a quel punto l’artista li fotografa ed evidentemente ognuna di queste fotografie rappresenta una forma di vanitas. Onda di Paola Mattioni, un’opera composta da una sequenza fotografica, rende visibile una forza difficilmente documentabile: quella del vento, che sul campo di grano crea forme simili a un alfabeto. Giuliano Mauri lavorava direttamente con la natura e nella natura, e Un bosco, opera filmica di Studio azzurro, ci guida nel viaggio fuori dal palazzo, in mezzo ai cicli delle stagioni che si ripetono costantemente.
Questa mostra va percepita come una collana di pensieri visivi che ricordano la madre terra e richiamano all’urgenza di non dimenticare mai di pensarla in modo responsabile.